Bartleby lo scrivano, di Hermann Melville
Autore: Maria Deledda
Racconto famosissimo quanto ermetico Bartleby, che a distanza di due secoli dalla sua pubblicazione continua a dispiegare il suo fascino sui lettori.
La storia probabilmente è nota ai più, ed è narrata in prima persona dal capo e datore di lavoro di Bartleby, un avvocato di Wall Street molto fiero -come ci tiene a far trasparire subito dalle prime righe- della sua posizione, dei suoi contatti nel mondo e del modo in cui ha organizzato il suo studio, ottimizzando i diversi gradi di “inefficienza” dei suoi impiegati.
Fino a quando -per far fronte ad un nuovo e remunerativo incarico- decide di assumere un altro impiegato, tal Bartleby, di cui nulla si sa e che si sottrae a ogni tentativo di descrizione, come la superficie di uno specchio che rimanda l’immagine di chi lo osserva.
Bartleby è inizialmente tanto silenzioso quanto efficiente, e tutto sembra procedere per il meglio fino a quando il suo capo non decide di affidargli un compito leggermente al di fuori delle sue mansioni precedenti. La risposta -tanto sorprendente quanto netta- è un “preferirei di no”. A nulla valgono i richiami fermi e perplessi dell’avvocato ai suoi doveri di lavoratore; da quel momento in poi, qualsiasi cosa gli si chieda, Bartleby oppone sempre un “preferirei di no”, senza altre spiegazioni.
Il suo rifiuto si estende progressivamente a qualsiasi cosa, incluso lo spostarsi dallo studio (nel quale l’avvocato scopre che di fatto vive). Alla fine è l’avvocato, esasperato, ad abbandonare la partita vendendo lo stabile pur di liberarsi del suo ingombrante inquilino.
Ma la mossa non è risolutiva.
Sarà infatti il nuovo proprietario dello stabile ad avvisarlo che Bartleby è stato infine portato via in carcere, stante l’impossibilità di farlo spostare.
L’avvocato allora non resiste alla tentazione di andarlo a trovare lì, ormai vittima del suo “carnefice”. Lì scopre che Bartleby è morto, di inedia, perché il suo rifiuto di vivere si era esteso anche al cibo; e lì, appresa la notizia, lo omaggia con una misteriosa quanto affascinante frase finale, “ora riposa coi re e con i grandi della terra”.
E’ questa frase la vera chiave di lettura del racconto.
Bartleby è colui che all’ineluttabilità delle sfide e dei compromessi della vita -alle sue fatiche, alle sue richieste, alle mille decisioni piccole e grandi che occorre affrontare ogni giorno- oppone il proprio no e si sottrae, accettandone le conseguenze.
E’ il contrario del Sisifo di Camus, e di uguale grandezza; l’uno è grande perché accetta il suo destino benchè consapevole della sua miseria e dell’assenza di scelta, l’altro perché lo rifiuta e -di fronte all’implacabilità schiacciante della vita- sceglie di abbandonarsi, e con questo esercita il suo libero arbitrio.
Il suo rifiuto della vita, del farsi avanti, ha un che di eroico perché piega i perbenismi; non a caso l’avvocato suo capo, pur non capendolo, in fondo lo ammira, perché vede in lui un’alternativa a quella che a lui sembra l’unico modo possibile di affrontare la vita: il conformismo, il fare quello che la società si aspetta, godendo al più dell’efficientamento dei processi (come fa lui quando sceglie e assegna il lavoro ai suoi impiegati) ma senza farsi domande, senza chiedersi perché. La ribellione incomprensibile, ferma e pacata di Bartleby gli apre -letteralmente- uno spaccato su un diverso modo di essere, in cui si può scegliere la libertà a dispetto di tutto e arrivando a pagarne il prezzo finale.
In un mondo di conformismo e perbenismo strisciante, in cui ognuno si sente in diritto -probabilmente per mettere a tacere l’incapacità di affrontare e gestire la propria vita- di predicare agli altri “come” si vive, con continui slogan- abbiamo veramente bisogno di uno come Bartleby.
Uno che “preferirebbe di no” senza stare a spiegare perché.
Un gigante del libero arbitrio.