Il Mito di Sisifo
Autore: Maria Deledda
“Gli dèi avevano condannato Sisifo a far rotolare senza posa un macigno sino alla cima di una montagna, dalla quale la pietra ricadeva per azione del suo stesso peso.
Essi avevano pensato, con una certa ragione, che non esiste punizione più terribile del lavoro inutile e senza speranza”.
Queste le prime parole che Camus dedica a Sisifo nel capitolo conclusivo del libro omonimo, a chiusa di una serie di riflessioni iniziate con un quesito fulminante:
“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie – viene dopo. Questi sono giuochi: prima bisogna rispondere“.
Queste parole ci introducono subito nel mondo secondo Camus, il mondo dell’assurdo, dominato dal contrasto tra l’ostilità primigenia nei confronti dell’uomo e l’aspirazione inutile di quest’ultimo al senso delle cose.
Non c’è alcun senso nelle cose e negli sforzi quotidiani. Ognuno di noi, quotidianamente, si sobbarca il peso di spingere il suo masso, fatto della fatica del suo lavoro e delle sue relazioni. A volte raggiunge anche gli obiettivi -la cima- e pensa che lo sforzo abbia avuto un senso; ma dura un attimo, poi succede sempre qualcosa che riporta la pietra giù, e occorre ricominciare da capo.
Questa è la condizione umana secondo Camus; questo è l’assurdo.
A fronte di questo, della constatazione dell’assurdo, alcuni reagiscono con le illusioni, come la fede (considerata da Camus come una facile fuga che un pensatore serio non dovrebbe mai fare); altri con l’ideologia, o anche solo con la speranza di un destino che riscatti.
Altri invece -pochi- hanno il coraggio di guardare in faccia l’assurdo, la mancanza di senso della condizione umana, e di accettarla così com’è, prendendo la vita così com’è; e questa accettazione, questo abbracciare la vita pur vedendo l’assurdo e nonostante l’assurdo eleva l’uomo ad eroe.
“Esiste una volontà di vivere senza rifiutar nulla della vita, ed è la virtù che io onoro di più in questo mondo”.
Così fa Sisifo secondo Camus nell’attimo della discesa, dopo che la pietra è rotolata giù per l’ennesima volta: è quello il momento in cui Sisifo sa che dovrà affrontare la fatica inutile di spingere di nuovo il masso su per l’erta, per poi vederlo rotolare giù, ancora e ancora, per sempre.
“Se questo mito è tragico, è perché il suo eroe è cosciente. In che consisterebbe, infatti, la pena, se, a ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire? L’operaio d’oggi si affatica, ogni giorno della vita, dietro lo stesso lavoro, e il suo destino non è tragico che nei rari momenti in cui egli diviene cosciente. Sisifo, proletario degli dei, impotente e ribelle, conosce tutta l’estensione della sua miserevole condizione: è a questa che pensa durante la discesa. La consapevolezza, che doveva costituire il suo tormento, consuma, nello stesso istante, la sua vittoria”.
Più ancora del momento dello sforzo (“l’indicibile supplizio, in cui tutto l’essere si adopra per nulla condurre a termine”), è dunque il momento della consapevolezza dell’inutilità dello sforzo che rende Sisifo tragico. Ma il fatto che Sisifo ne sia consapevole e lo accetti, e anzi lo abbracci, lo eleva ad un livello che prima gli era ignoto: le verità schiaccianti soccombono per il fatto di venir conosciute.
Tutta la silenziosa gioia di Sisifo sta in questo. Il destino gli appartiene, il macigno è cosa sua.
Dobbiamo immaginare Sisifo felice.
Living well is the best revenge dicevano i REM*.
Un libro che da una crudezza totale riesce a muovere ad una consolazione assoluta.
*(credits Rick DuFer per l’accostamento 😉